I bambinelli di Macarina

Nota dell'autore

Anzitutto un’avvertenza, o dichiarazione d’intenti, a beneficio dei miei quattro lettori.

Le pagine di questo libro non sono il frutto di riflessioni morali o moraleggianti, né vi si troverà il benché minino accenno a giudizi limitativi e preconcetti sulla personalità e sull’operato dei protagonisti.

 

Personaggi e situazioni, è vero, rispecchiano fatti reali, ma sono stati ampiamente trasfigurati – non so se il risultato può essere giudicato soddisfacente, almeno in parte – per proiettarli fantasticamente nell’universo, sempre vero e presente in ogni epoca, dell’umano senza altre specificazioni.

I fatti narrati, dunque, anche se non sempre attingono alla ricchissima cronaca, possono comunque risultare verosimili.

 

I personaggi recitano contendendosi il proscenio ma restano sempre, anche se in ombra, sul palco come figuranti di una storia che li utilizza, li incorpora, li esalta, li trascende.

 

Le storie sono ambientate quasi tutte a Macarina[1], un paesetto fuori di un tempo preciso e di uno spazio geografico delimitato. In esso si intrecciano strane vicende di gioie e sofferenze, a volte indicibili ma sempre redimibili perché tipiche della condizione disperata dell’uomo che anela ineluttabilmente alla trasfigurazione della storia, e delle storie. Da qui nasce il bisogno di giocare

con la storia, di ritoccarla, di leggerla in modo strampalato, capovolto, e di stirarla nel torchio infedele della fantasia. Il faticoso e liberante lavoro onirico si rapprende, infine, nello scritto che trasuda consolazione: ogni vicenda avrebbe potuto concludersi in modo diverso e resta la speranza che le banali cronache di Macarina racchiudono, e dischiudono, misteri di felicità non sempre

esprimibili, ma a portata di mano.

 

Bisogna dire che Macarina ha alle spalle una storia di tremila anni, forse di più. Se si potesse tagliarne una fetta, come si fa con la torta di compleanno, apparirebbero numerosi strati di sedimenti di ogni epoca e genere. Dai più antichi abitatori della zona, i preistorici sicani, si passerebbe a fare la conoscenza degli arcaici Siculi, dei Cartaginesi e dei Greci, dei Romani e dei Bizantini. In essa lasciarono segni importanti i Musulmani, i Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi[2], ma vi sostarono anche piccole colonie di ebrei. L’invasore di turno, manco a dirlo, si premurava di distruggere ciò che avevano costruito gli abitanti appena conquistati e di sostituire lingua, moneta, usi e costumi.

Reliquie del loro passaggio sono, tutt’oggi, alcuni termini di uso comune nella parlata macarinese[3], anche l’architettura urbana e l’assetto topografico risentono vistosamente dei trascorsi attraversamenti.

 

Macarina risulta essere così, agli inizi del terzo millennio cristiano, uno strano coacervo (è un termine che piaceva al mio vecchio professore di italiano, dal cielo mi starà elogiando…), una strampalata macedonia, in cui i vari ingredienti sono legati da due elementi straordinari per presa e tenuta: il passato e la tradizione.

Parecchi personaggi macariniani si muovono come dentro a una minuscola bolla di sapone, che riflette il vasto mondo.

Dall’interno della bolla, come astronauti dall’oblò della navicella, si può buttare qualche sguardo verso l’esterno, ma non è possibile sforare il palloncino perché è di materia viscida, imprendibile, camaleontica: quando un macarinese, afferrato da sussulto di civica responsabilità, si lancia contro le pareti della bolla ne viene fortemente respinto. Così nascono e si strutturano quelle particolari forme di vita e di personalità che tipizzano la macarinità: attorno al nucleo portante e deformante

dell’indiscusso valore proprio e della propria famiglia, la dignità viene corrosa dalla convinzione che i mondi della libertà e del progresso possono essere solo sognati e che, dunque, conviene essere realisti, si può abbassare il capo senza sensi di colpa.

 

Macarina, nella sua sostanza arcaica, intende evocare l’archetipo della città, ove si rincorrono amori e odi, si muovono le vite dei cosiddetti grandi della storia e degli sconosciuti portatori di feriale normalità in un turbinio vorticoso che stordisce ma anche, in contemporanea, nella lentezza sorniona di una speciale, meridionale qualità del tempo, che fretta non ha.

 

Simile a tema musicale che avvolge le storie narrate, o le motiva, o se ne lascia irretire, è la presenza quasi costante del piccolo d’uomo, il bambino, o in alternativa e come sua logica proiezione, il debole, il povero, il biblico ‘anaw.

Da lì parte ogni storia.

Lì può finire la storia.

Che si consideri il bambino come inizio o come punto culminante, è certo che l’evolversi dell’umano o del sub-umano, addirittura dell’ultra-umano, non può avverarsi senza il passaggio obbligato attraverso il crogiolo della sofferenza, e l’orecchio attento, nelle storie narrate,

ne avvertirà l’eco distinto.

 

Il grido dei piccoli riempie di clamore il cielo umano e, attraverso gli spazi intergalattici della coscienza sfilacciata di chi ardisce usurpare la cieca fiducia e l’abbandono, si spinge fino a Dio. Che, adesso, dev’essere proprio stanco.

Non inganni il tono lieve del racconto. L’ira di Dio incombe: Lui sta meditando sul come. Ma sul fatto che debba intervenire, non ha dubbi. Quando deciderà l’azione più efficace, si strapperà fuori dal romanzo, spaccherà i monitor infetti, e lo si potrà vedere in giro per il mondo con in braccio – Lui ha braccia grandissime, infinite – con in braccio tutti i piccoli dal cui cuore, in tutte le epoche, hanno abraso la luce. Allora i piccoli torneranno a saltellare di gioia, e anche il mondo.

 

Mi accorgo che, involontariamente, sto forse scrivendo un altro racconto di fantasia.

Non ci posso far niente. È più forte di me. La speranza è la mia malattia.

 

 

Infine vorrei segnalare che le notizie storiche e gli spunti antropologici, utilizzati

nella stesura dei racconti, sono stati tratti dalle seguenti opere:

 

– Di Martino P., Tu come ti chiami? Cognomologia e onomastica della popolazione di Mazzarino, Edizione fuori commercio, 1991.

– Mercadante A., Bambini di cera nell’arte di Domenico Fasulo, Lussografica, Caltanissetta, 2009.

– Di Giorgio Ingala G., Mazzarino, Ricerche e considerazioni storiche, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1996 (ristampa dell’ed. del 1900).

– Mannella S., I Carmelitani a Mazzarino, Lussografica, Caltanissetta, Giugno 2010.

– Mannella P.L.J., Le figure popolari siciliane nei proverbi di Mazzarino, Lussografica, Caltanissetta 2005.

Storia della Sicilia, Società Editrice Storia di Napoli, della Sicilia e del Mezzogiorno continentale, Vol. VI, Palermo 1978.

 

Last but not least, desidero ringraziare calorosamente quanti, nel corso della scrittura mi hanno sostenuto e incoraggiato con l’apprezzamento e il competente consiglio, in modo del tutto particolare mi piace ricordare il noto scrittore Enzo Russo per la benevola e lusinghiera presentazione, e don Angelo Passaro, curatore dell’edizione.

 

Una citazione grata meritano le mie nipoti Chiara e Valeria Guttadauro e la dr. Flora Maira per la paziente rilettura del manoscritto.

 

Anche se le storie e i personaggi che vi figurano sono di fantasia, sento di essere ugualmente debitore a quei compaesani che, involontariamente, me li hanno ispirati.

 

Un ricordo carico di gratitudine va infine a Filippo Alessi, assessore allo Sport e Spettacolo, Sviluppo Economico del Comune di Mazzarino per aver voluto patrocinare questa pubblicazione; all’azienda Bongiovanni s.r.l. di Mazzarino e alla Caritas della parrocchia S. Maria di Gesù di Mazzarino per aver generosamente contribuito alla realizzazione di questo volume.

 

 

 

 

 



[1] “Macarina” è uno dei nomi storici della cittadina centrosicula in provincia di Caltanissetta, che attualmente porta il nome di Mazzarino. Macarinam è il nome latinizzato di Màzaris, distrutta dall’esercito romano nel corso della prima guerra punica (263-239 a.C.) e ricostruita in altro sito intorno all’anno 173 a.C. (cf. G. Di Giorgio Ingala, Mazzarino. Ricerche e considerazioni storiche, Mazzarino 1991, pp. 43-47).

“L’avvento dei Romani causò la distruzione di Mazaris e la ricostruzione, in altro sito, nel Piano delle Vigne, col nuovo nome di Makarina” (in S. Mannella, I Carmelitani a Mazzarino, Caltanissetta 2010).

[2] Cf. S. Mannella, I Carmelitani a Mazzarino, pp. 18-19.

[3] Cf. P.L.J. Mannella, Le figure popolari siciliane, p. 21. Così, tanto per fare qualche esempio,

dal greco derivano i termini bummulu, recipiente di creta per l’acqua, e lemmu, vaso di terracotta; dal latino, invece, capizzu, capo del letto, e trispu, cavalletto di legno. Molti sono i termini lasciati in dotazione dagli arabi, eccone uno sparuto campione: giara, tannura, tabbutu, gibbia, carrubbu, che rispettivamente significano: recipiente di terracotta, fornello, cassa da morto, grande vasca, carrubo. Abbondanti sono i termini di origine catalana, come anciova (acciuga), tappina (pianella), meusa (milza), o di origine castigliana: nzaiari (provare), criata (serva). Francesismi, infine, sono fumiri (concime), jumenta (cavalla), tumazzu (formaggio), partò (cappotto), basciù (abajourd) e tabbarè